La nuova global minimum tax: un legge fiscale (davvero) possibile.

Massimiliano Bonacchi
 (Professore Economia Aziendale, Direttore del Centro di Competenza sulla Sostenibilita’ unibz)

Luca Menicacci
 (Ricercatore Economia Aziendale, unibz)

La tanto discussa global minimum tax è legge: la vera novità fiscale di quest’anno è che le multinazionali con sede principale in Italia, ma con unità sussidiarie in paesi a bassa tassazione societaria pagheranno anche nel nostro paese (sono 140 i paesi aderenti a questo principio di giustizia tributaria) la loro equa quota di tasse che, ad oggi, è prevista nella misura corrispondente alla differenza di quanto pagato nei singoli paesi esteri dove operano e il tetto dell’aliquota del 15%. (Per fare un esempio, se la capogruppo ha sede in Italia e opera in Irlanda ove l’aliquota è del 12,5%, dovrà pagare in aggiunta in Italia un’imposta differenziale pari al 2,5%).

La strada che ha portato alla sua approvazione è stata annosa e travagliata: inizialmente sentita come necessaria per le aziende del web aventi la loro sede in paesi con una fiscalità societaria bassa o addirittura nulla, è poi stata pensata per tutte le multinazionali che si avvantaggiano di risiedere legalmente in tali paesi, ma che si rivolgono anche a consumatori finali localizzati in Stati con fiscalità societaria adeguata.

La lista delle critiche lette in questi giorni è lunga e anche, in via di principio, ampiamente condivisibile.

Il meccanismo di funzionamento della tassa minima universale è ancora troppo complesso ai fini della sua applicazione e necessiterà di ulteriori linee guida e chiarimenti, che inevitabilmente comporteranno un aumento dei costi amministrativi per le imprese e contenziosi.

Le stime del gettito per le casse dello stato italiano sono sicuramente troppo ottimistiche, e sono già state, in parte, riviste al ribasso: inizialmente si parlava di un introito di circa tre miliardi, ma il servizio bilancio della Camera ha ridotto tale stima a soli 380 milioni per il suo primo anno di riscossione (2025).

Dal punto di vista, poi, della giustizia fiscale, l’aliquota del 15% è ancora troppo bassa se raffrontata con l’aliquota media europea della tassazione sulle società (per esempio in Italia l’imposta sul reddito delle società ha un’aliquota del 24%, in Austria del 25%, in Francia del 28%, in Spagna del 25%, in Germania si può arrivare addirittura al 30%); per tale motivo leggiamo, da parte di autorevole dottrina, come il passo sia ancora troppo timido seppur fatto nella giusta direzione.

In più non c’è chi non sottolinei la mancata adesione a questo principio di giustizia fiscale da parte degli Stati Uniti e della Cina.

Pur condividendo tutte le critiche mosse, come detto, è necessario fare una riflessione partendo dal concetto espresso un tempo da Otto von Bismark, ovvero che la politica non è altro che l’arte del possibile e così pure la politica fiscale non è altro che la legge fiscale davvero possibile in quel momento storico.

Raggiungere i due intenti di portata epocale come quelli che ci si è prefissati in ambito comunitario e, cioè, da un lato di contrastare gli schemi elusivi delle imprese multinazionali tesi a minimizzare il loro carico fiscale, che così non potrà mai scendere sotto il 15% a livello di singolo Stato e, dall’altro, incentivare gli Stati che sino ad oggi puntavano su di una concorrenza fiscale aggressiva ad innalzare le proprie imposte sul reddito delle società almeno al livello del 15% previsto dalla tassa minima universale, non è davvero poca cosa.

Avere tenuto l’aliquota minima globale ad un livello (in sede di prima approvazione) di alcuni punti percentuali più basso di quello medio europeo ha permesso l’accettazione del principio da un numero maggiore di paesi e vinto la resistenza di altri.

Qui ciò che conta è, in primo luogo, il recepimento normativo dell’esigenza di una tassazione minima globale delle multinazionali come giusto e accettato in via di principio e, in secondo luogo, l’effetto di primo deterrente che questa imposta ha su comportamenti fiscali elusivi e rapaci, che impoveriscono ed erodono la capacità di welfare delle democrazie rappresentative.

L’approvazione della global minimum tax avrà necessariamente l’effetto di indurre gli stati a bassa tassazione societaria ad adeguarsi quanto meno al 15% di aliquota poiché, in caso contrario, il gettito differenziale andrà al paese aderente alla global minimum tax dove la multinazionale anche opera e ha la sede la capogruppo. Non solo questo: i paesi aderenti a tassazione medio-alta (come ad esempio Italia o Francia) vedranno automaticamente aumentare la propria competitività da un punto di vista fiscale, poiché non vi è più la differenza sostanziale che c’era in precedenza. 

I primi studi empirici sul tema mostrano che anche i mercati finanziari hanno già percepito questo cambiamento di rotta, anticipandone l’effetto sui corsi azionari e sullo spread del debito dei singoli paesi. In un recente studio condotto da Gómez-Cram e Olbert (London Business School), si dimostra come a seguito dell’annuncio della approvazione della global minimum tax i gruppi multinazionali statunitensi più esposti alla riforma fiscale perché operanti in diversi paesi, ma aventi le loro sedi estere in ambiti territoriali a fiscalità societaria privilegiata (come ad esempio il gigante Apple che ha la sua sede europea in Irlanda) abbiano mostrato ritorni azionari negativi, fenomeno che non si è verificato per grandi imprese che non hanno strutture societarie estere, come ad esempio il gruppo che possiede i supermercati americani Walmart.

Questo sta già a significare che la nuova legge tributaria ha centrato l’obiettivo: le proiezioni degli investitori sulla tassazione che si prospetta a carico delle multinazionali più esposte alla riforma (perché presenti in diversi stati ma aventi la loro sede legale in paesi a fiscalità privilegiata) sono negative, nel senso che ci si aspetta che pagheranno più imposte, ovvero dovranno ridurre i propri schemi di pianificazione fiscale aggressiva.

Dall’altra gli spread sui credit default swap – che misurano il rischio di default sul debito sovrano – dei paesi a più bassa tassazione hanno subito un aumento rilevante dopo l’annuncio dell’accordo. Questa evidenza empirica viene interpretata come minore sostenibilità del debito sovrano di questi paesi, considerando il minor gettito proveniente dalle – seppur modeste – imposte che le multinazionali pagavano agli stessi prima della riforma. 

In conclusione, possiamo dire che se è vero che molto c’è ancora da riflettere e fare – vedremo con ogni probabilità in corso d’opera ulteriori interventi legislativi volti a migliorare, adeguare e semplificare il meccanismo di applicazione della nuova legge – è anche vero che non possiamo assolutamente sminuire quanto è stato oggi faticosamente raggiunto, seppur con il limite che ogni scelta politica, anche fiscale, impone di dover accettare una norma non ancora perfetta, non ancora completamente giusta, ma storicamente possibile e largamente accettabile.

Quindi, ben venga il dibattito e le critiche che contribuiranno a migliorare lo strumento legislativo che ora abbiamo, ma nessuno può negare che l’orizzonte di una fiscalità equa e condivisa, che non arricchisca solo alcuni paesi che compiacciono i grandi gruppi globali a discapito degli altri, è oggi più vicino.

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