di Mirco Tonin
Può sembrare forse strano parlare di «fuga dei cervelli» in un periodo come questo, in cui attraversare le frontiere è complicato. O forse no, visto che rende più difficile il rien- tro per le festività natalizie di coloro i quali per lavoro all’estero si sono già trasferiti da tempo, rimarcandone dunque, tristemente, la distanza.
Ha senso parlarne anche perché la crisi del Covid, che si innesta su una stagnazione pluridecennale del Paese, mette con ancora più forza all’ordine del giorno la necessità di valorizzare nel miglior modo possibile tutte le risorse disponibili, e in primo luogo le persone, visto che il trasferimento all’estero di capacità e competenze ha conseguenze per tutto il sistema produttivo.
Questo emerge dalla tesi di Emanuele Dicarlo, dottorando in economia all’Università di Zurigo, che ha studiato l’impatto della graduale apertura del mercato del lavoro svizzero verso i lavoratori transfrontalieri, a seguito di negoziazioni tra la Confederazione elvetica e l’Unione europea. Lo studio confronta i comuni italiani da cui è possibile attraversare il confine con la Svizzera in meno di mezz’ora con comuni limitrofi che sono però più distanti dal confine, includendo dunque anche diversi paesi della Val Venosta. La graduale rimozione delle barriere legali ha comportato un massiccio incremento nel numero di lavoratori che attraversano tutti i giorni la frontiera, attratti presumibilmente dalle condizioni salariali molto più attraenti offerte al di là del confine.
Il salario medio nel periodo dello studio è infatti di 1.800 euro nelle aree di confine italiane, mentre nei cantoni svizzeri a pochi chilometri di distanza è di circa 4.200 euro. L’incremento è stato particolarmente accentuato per le categorie di lavoratori maggiormente qualificati, per cui il gap salariale è ancora più forte, 2.200 contro 6.000 euro. Le aziende italiane delle aree di confine hanno dunque visto un deflusso di forza lavoro, che hanno sostituito in parte con maggiori investimenti in capitale, in parte reclutando lavoratori con meno esperienza. Il risultato è stato un calo nella produttività per le imprese a più alta specializzazione e un riorientamento delle imprese verso settori a più basso valore aggiunto.
Si rischia dunque di creare un circolo vizioso in cui la perdita di competenze porta ad un’ulteriore dequalificazione del sistema produttivo, che diventa ancora meno attraente per lavoratori altamente qualificati, rendendone più probabile lo spostamento all’estero. Invertire questa tendenza dovrebbe essere in cima all’agenda politica e il lavoro di un giovane ricercatore italiano in Svizzera ce lo ricorda.
Pubblicato sul Corriere dell’Alto Adige il 13 dicembre 2020