di Massimiliano Bonacchi (Professore di Economia Aziendale unibz)
Pochi giorni fa la Commissione Europea ha pubblicato il cosiddetto “pacchetto Omnibus” con alcune proposte per la semplificazione degli obblighi previsti dall’Unione Europea nell’ambito della sostenibilità. Il pacchetto include tra le diverse proposte di semplificazione anche un innalzamento dei limiti oltre i quali è obbligatoria la pubblicazione del bilancio di sostenibilità: se la proposta sarà approvata dal Parlamento e dal Consiglio dell’Unione Europea solo le aziende con più di 1.000 dipendenti saranno obbligate a redigere il bilancio di sostenibilità. Per rendere più immediata la visione della portata della norma, in Alto Adige (Italia) si passerebbe da circa 130 (8.000) aziende che superano almeno due dei tre dei limiti oggi imposti (50 milioni di fatturato, 25 milioni totale di elementi attivi dello stato patrimoniale, 250 dipendenti), a circa 10 (800) imprese che hanno più di mille dipendenti.[1] In buona sostanza, con la nuova proposta di semplificazione meno del 10% delle imprese con sede nel territorio provinciale dovranno integrare la rendicontazione economica tradizionale con l’informativa di sostenibilità.
Nell’ipotesi in cui il pacchetto sarà approvato nella forma proposta, come spesso accade la notizia è cattiva e buona al tempo stesso, a seconda dal lato da cui la si guarda.
Il perché sia una cattiva notizia è di immediata comprensione, in quanto l’importanza della transizione verso la sostenibilità diventa oggetto di messaggi contrastanti: da un lato la UE ribadisce, anche confermando gli obiettivi del Green Deal, che il cambiamento climatico e la lotta alle diseguaglianze sono temi di assoluta rilevanza, ma dall’altro indebolisce, rendendole meno incisive, le norme elaborate al fine di rendere pubblici ed evidenti gli sforzi profusi dalle imprese per raggiungere questi stessi obiettivi nel percorso di transizione verso la piena sostenibilità.
Il perché ci sia anche del buono, pur nell’incertezza normativa attuale, è forse meno intuitivo, ma è comunque sufficiente soffermarsi anche solo un attimo a riflettere per comprenderlo. La rivoluzione in materia di comunicazione dei dati aziendali relativi alla sostenibilità portata dalla direttiva CSRD, recepita in Italia a settembre 2024, non si fermerà, e se anche il pacchetto omnibus può sembrare, e forse è, una battuta di arresto, la rivoluzione è già intervenuta e ha mutato per sempre il contesto in cui le aziende si muovono, piccole o grandi che siano. Infatti, la direttiva CSRD che ha condotto all’approvazione a livello europeo di una serie di principi contabili per la sostenibilita’ (European Sustainability Reporting Standard – ESRS) non è stata modificata nella sua struttura portante dal pacchetto Omnibus, che ne ha principalmente ridotto il perimetro di applicazione, e pertanto i principi contabili predisposti per comunicare i dati di sostenibilità sono tutt’oggi e in futuro disponibili in due versioni, una estesa per le aziende che sono obbligate a redigere il bilancio di sostenibilità e una versione semplificata per le piccole e medie imprese che vogliono comunque redigerlo su base volontaria (i cosiddetti principi volontari per le piccole medie imprese – VSME).
Le imprese non obbligate si distingueranno allora in due gruppi. Da un lato, le imprese che hanno deciso di investire nella sostenibilità e che, di conseguenza, avranno comunque un interesse a redigere e pubblicare il relativo bilancio poiché i benefici che ne traggono sono superiori ai costi sostenuti per raccogliere le informazioni e dall’altro, le imprese che percepiscono solo i costi di questo obbligo e che ora si sentono sollevate da questa incombenza per loro solo burocratica.
Tuttavia, a volte si dimentica che la sostenibilità non è solo una questione di regolamentazione, è anche una questione di mercato; le banche e le grandi imprese continueranno in ogni caso a richiedere le informazioni di sostenibilità anche alle aziende più piccole con cui interagiscono, in quanto sono obbligate a raccogliere questi dati dalle rispettive normative europee (per le Banche il regolamento SFDR e per le grandi imprese la direttiva CSRD). Così sarà interesse delle imprese, seppure non obbligate a rendicontare il proprio grado di sostenibilità, ad offrire comunque queste informazioni ai propri partner commerciali, in quanto questo le rende preferite dal mercato. Al contrario, per le imprese che non rendono disponibili queste informazioni, il mercato assumerà che non sono disponibili perché i risultati conseguiti in ambito di sostenibilità non sono soddisfacenti.
Il fenomeno appena descritto si ricollega ad una ben nota teoria economica: la teoria del cosiddetto “unravelling”. Quando un’azienda possiede informazioni interne non divulgate (ad esempio, sull’impatto ambientale delle proprie produzioni, sulle condizioni di lavoro dei propri dipendenti, sul contributo alle comunità in cui opera), l’osservatore esterno suppone che se un dato non è svelato – unravelled, il dato sia insoddisfacente. Questa pressione informativa, data dalla consapevolezza che il non fornire il dato non significa non dare un’informazione, significa al contrario dare l’informazione che il dato richiesto non è adeguato, porta, nel tempo, ad una divulgazione spontanea, anche in assenza di specifici obblighi normativi e in particolare da parte di quelle imprese che sanno di avere performance migliori della media.
Il recente studio di Bourveau e coautori, in corso di pubblicazione su Review of Financial Studies[2] analizza un caso storico che ben spiega il fenomeno: negli anni intorno al 1890 il settore del trasporto pubblico su rotaia, in ragione delle innovazioni tecnologiche introdotte dalla recente elettrificazione, necessitava di ingenti finanziamenti per far fronte ai nuovi investimenti. Alcuni giornali dedicarono un proprio supplemento alle aziende del settore che volevano rendere pubblici i dati relativi ai propri profitti per soddisfare la domanda di informazioni degli investitori. Dapprincipio molte aziende non colsero il valore di questa opportunità e scelsero di non divulgare i propri profitti. Con il tempo le aziende, ovviamente quelle che conseguivano alti profitti, si resero conto di trarre un vantaggio in termini di fiducia da parte degli investitori nel fornire loro le informazioni e per questo sempre più aziende iniziarono a rendere pubblici questi dati.
Lo stesso fenomeno potrebbe verificarsi con il bilancio di sostenibilità: chi sceglierà di non pubblicarlo si assume il rischio di essere percepito dal mercato come meno adeguato in questo ambito subendo al contempo pressioni competitive a conformarsi agli standard informativi richiesti dai partner commerciali e offerti dai propri concorrenti.
Le rivoluzioni difficilmente seguono un percorso lineare: oscillano tra momenti di forte cambiamento e momenti di assestamento e successivi momenti di avanzamento. In genere dopo l’approvazione di un primo gruppo di norme segue una loro limatura per renderle più aderenti alla realtà storica senza per questo tradirne i principi che le hanno animate. La versione iniziale dei principi in materia di sostenibilità con quasi 1.200 dati richiesti poteva risultare troppoonerosa per molte PMI con un fatturato di poco superiore ai 50 milioni di euro, così l’istanza promossa da più parti per una loro semplificazione ha trovato spazio nell’agenda politica.
La storia insegna che le resistenze al nuovo in generale e qui alla trasparenza contabile, in particolare, non sono certo cosa nuova: nel 1991 l’Italia recepì la IV Direttiva CEE che ha introdotto l’obbligo di bilancio per tutte le società di capitali. Anche in quell’occasione le critiche mosse furono di identica natura: si parlava di oneri sproporzionati per le PMI, di un aumento della burocrazia e di costi eccessivi. Oggi nessuno metterebbe più in discussione la necessità che vi sia un bilancio pubblico il quale garantisca la trasparenza e la fiducia nei mercati.
La comunicazione dei dati relativi alla sostenibilità aziendale potrebbe seguire lo stesso percorso: meno soggetti obbligati oggi non significa meno trasparenza domani, infatti se il mercato continuerà a richiedere informazioni affidabili in materia di sostenibilità, e così sarà perché la rivoluzione sostenibile è già avvenuta e i suoi principi sono sempre vigenti nella direttiva CSRD, il pendolo tornerà, inevitabilmente, a oscillare nella direzione della rendicontazione e comunicazione.
[1] Fonte Banca Dati AIDA Bureau Van Dijk.
[2] Bourveau, Thomas and Breuer, Matthias and Stoumbos, Robert, Learning to Disclose: Disclosure Dynamics in the 1890s Streetcar Industry. Available at SSRN: https://ssrn.com/abstract=3757679