di Roberto Farneti
Potremmo forse approfittare di questi tempi per fare riflessioni non su temi a caso ma sulle parole che usiamo ogni giorno, su come le parole non sono mai innocenti, nel senso che il loro uso nel linguaggio comune rivela abitudini mentali di lungo corso. Le misure fortemente restrittive chieste dal governo sono state descritte come un sacrificio. Agli italiani si chiede un sacrificio, i sindaci fanno eco alle parole del premier chiedendo sacrifici, o ringraziando chi sta facendo un sacrificio. Non pensavamo che non mettere a repentaglio le vite degli altri fosse un sacrificio, ma è così, e siamo diventati soli e individualisti a un punto tale che il limite imposto non alla libertà ma alla semplice facoltà di fare due passi quando ci va lo viviamo come una violazione. E così lo intendono gli autori del decreto che limita la nostra libertà; e così anche i sindaci che applicando il decreto e ne spiegano i termini agli italiani. Per cui anziché riflettere sul senso dell’umana libertà in un tempo in cui questa libertà è minacciata, guardiamo con emozionata ammirazione a chi si sacrifica e viviamo anche noi la nostra parte di sacrificio stando a casa il più del tempo. Ma poi c’è un limite al sacrificio, se si pensa a quanta gente se ne esce da supermercati e pizzicagnoli con un sacchetto di mele o una bottiglia d’olio, perché poi ogni giorno è così, dobbiamo tornare a fare la spesa perché mica possiamo morire di fame. Nessuno si sogna di dire agli italiani che è loro dovere, che cioè stare a casa è parte di un debito di cittadinanza contratto con uno Stato certamente sgangherato ma al momento non assente. Nessuno parla di dovere perché ormai siamo anestetizzati a un certo uso delle parole, al fatto che la lingua italiana è diventata sempre più un codice per rivendicare e accusare, mettendo in scena atteggiamenti che variano dal vittimismo al disprezzo, in cui l’unico punto su cui sempre si torna sono i diritti e soltanto quelli. Perché i diritti sono il candidato perfetto per mettere in piedi un discorso rivendicatorio sul nostro primato morale sugli altri — sui politici in primo luogo — o sul nostro conveniente vittimismo in situazioni in cui la retorica dei diritti serve solo a reclamare e a punire. E questo si è tradotto sempre, nel discorso comune, in una mitologia nostrana sul valore di quei luoghi in cui i diritti erano una cosa seria, quando invece se c’era un paese in cui si parlava e straparlava di diritti, nei dibattiti parlamentari, nei tavoli contrattuali, nel discorso pubblico in genere, era proprio l’Italia. E la mitologia che abbiamo inventato assegnava ad alcuni paesi il ruolo di modelli e ad altri, ad esempio la Cina, il ruolo infausto di relitti totalitari nel nuovo secolo delle libertà e dei diritti. Non inizierò qui una lezione sul fatto che la Cina sia un sistema più complesso di quanto abbiamo mai creduto, in cui le pratiche sociali non si spiegano solo con abuso e repressione. Certo che per noi è difficile capire come funzionano lì le cose, perché il nostro parametro sono i diritti, per cui non vediamo altro che autorità e repressione da quelle parti, è normale. Se vedessimo le trasparenze, i dettagli vedremo certe cose dimenticate, come la responsabilità, che qui dalle nostre parti abbiamo abolito da tempo. Ma in situazioni di emergenza in cui le cose si risolvono solo attraverso azioni collettive, un sistema che pone al centro doveri e responsabilità è inequivocabilmente più efficiente di un sistema in cui prevale la retorica per lo più consolatoria dei diritti, sorella dell’orrenda retorica del sacrificio. Proviamo a pensarci, perché in futuro potrebbe esserci utile rivedere i parametri. E soprattutto le parole.
(Da Alto Adige, 23 Marzo 2020)