di Federico Boffa e Mirco Tonin
Probabilmente neanche nella prossima legislatura avremo una seria riforma fiscale. Senza interventi sulla spesa, difficili con un governo di coalizione, non ci sono le risorse per tagli alle imposte. E poi i politici preferiscono ridurre le tasse visibili.
Sostenibilità finanziaria e sostenibilità politica
Le varie promesse elettorali di riduzione delle tasse hanno generato un ampio dibattito sulle possibili coperture e sugli effetti sui saldi di finanza pubblica. Ma non c’è solo la sostenibilità finanziaria da considerare: perché siano realizzabili le proposte di riforma fiscale – se serie – devono avere anche una sostenibilità politica, che l’attuale cornice istituzionale non sembra garantire.
In primo luogo, sembra esserci poco spazio politico per una riduzione delle imposte incisiva perché sarà difficile individuare coperture adeguate. Puntare sugli introiti dalla lotta all’evasione, sull’autofinanziamento legato a un aumento del Pil o sull’allentamento dei vincoli europei, come genericamente auspicato nella campagna elettorale, è poco credibile. L’unica via percorribile deriverebbe da una riduzione significativa della spesa pubblica. Ma il contesto istituzionale sembra ben poco propizio ai tagli di spesa: la nuova legge elettorale ha forti elementi proporzionali e il sistema dei partiti è frammentato. Il governo che uscirà dalle urne sarà dunque molto probabilmente di coalizione. Ed è difficile che un esecutivo di coalizione riesca (o voglia) ridurre la spesa pubblica: il ministro delle Finanze di un dato partito ha difficoltà a far accettare una riduzione dei capitoli di spesa a disposizione di un altro ministro appartenente a un altro partito. Vi è ampia evidenza empirica su questo punto (fra gli altri, Torsten Persson, Gerard Roland e Guido Tabellini, “Electoral Rules and Government Spending in Parliamentary Democracies”), e l’esperienza di Giulio Tremonti nel 2004, riassunta da Massimo Baldini e Leonzio Rizzo, ne conferma la rilevanza per l’Italia.
In secondo luogo, i politici privilegiano interventi su tasse altamente “visibili” per l’elettorato, e per questo impopolari, e non su quelle che hanno invece i maggiori effetti sull’efficienza del sistema produttivo o sull’equità del sistema fiscale, facendo leva sull’illusione finanziaria già teorizzata da Amilcare Puviani. Un’imposta come l’Irpef è poco “visibile” per molti contribuenti (e quindi per molti elettori): nella maggior parte dei casi, infatti, pagarla non richiede nessun intervento attivo, perché è trattenuta direttamente dalla busta paga.
Quando sarà ora di passare dalle promesse elettorali alla scrittura delle leggi, e il vincolo di bilancio non potrà più essere considerato con la stessa leggerezza con cui lo si tratta prima delle elezioni, potremmo quindi ritrovarci con un esito paradossale. Dopo una campagna elettorale incentrata sulla poco praticabile massiccia riduzione di una tassa ad alto impatto sull’efficienza, come l’Irpef, rischiamo di ottenere al massimo interventi su tributi magari più visibili, ma con un effetto sull’efficienza molto limitato o addirittura positivo. Insomma, passeremo dalla promessa di una significativa rimodulazione dell’Irpef all’abolizione del bollo auto.
Sotto il profilo della comunicazione, va poi considerato che, pur con risorse limitate, il bollo auto può essere abolito, cioè ridotto del 100 per cento, mentre a parità di minori entrate nel bilancio dello Stato il taglio dell’Irpef in termini percentuali sarebbe ben poca cosa, riducendo l’interesse del politico verso un intervento di questo tipo se il cittadino focalizza la propria attenzione sulle percentuali invece che su quantità assolute.
Abolire la ritenuta alla fonte
Come evitare questo tipo di meccanismo? Occorre prima di tutto un dibattito serio sull’effetto che le diverse imposte hanno sull’efficienza del sistema economico e sulla crescita della produttività, oltre che sull’equità del sistema fiscale.
Tutto ciò è reso difficile da un livello di alfabetizzazione economico-finanziaria tra i cittadini ancora inadeguato. Sarebbe poi opportuno rendere più “visibili” agli occhi dei cittadini l’Irpef e tutte quelle imposte che sono maggiormente problematiche per la crescita della produttività. Una misura che certo contribuirebbe a cambiare il dibattito politico sulla riduzione della pressione fiscale sarebbe l’abolizione della ritenuta alla fonte per i redditi da lavoro. Si tratta di una vecchia idea, che varrebbe la pena riproporre. L’abolizione comporterebbe, tuttavia, un aggravio amministrativo a carico dei contribuenti, che dovrebbero effettuare direttamente il versamento. Una proposta più modesta, ma con minori difficoltà di gestione, sarebbe l’accredito del salario lordo sul conto corrente dei lavoratori dipendenti, con il contestuale automatico bonifico delle trattenute a favore dell’amministrazione statale. Una misura tecnicamente semplice e a costi minimi, ma potenzialmente in grado di aumentare la visibilità del carico fiscale sul lavoro. E’ pur vero che l’informazione è già disponibile nella busta paga, tuttavia il passaggio attraverso il conto corrente del denaro, per quanto virtuale, contribuirebbe a rendere maggiormente concreto il trasferimento di risorse. Inoltre, è verosimile che il conto corrente venga controllato con maggiore assiduità rispetto al cedolino. Una misura complementare sarebbe l’inclusione in busta paga, a titolo informativo, degli oneri a carico del datore di lavoro. In questo modo si metterebbe in risalto la vera misura del cuneo fiscale esistente tra costo del lavoro per le imprese e reddito disponibile per i lavoratori, mentre il salario lordo è un indicatore intermedio di limitato valore informativo.
Queste misure potrebbero essere un buon modo per riallineare gli incentivi politici con le esigenze di efficienza economica e migliorare quindi la sostenibilità politica di riforme fiscali serie.
Pubblicato su lavoce.info il 23 febbraio 2018