di Mirco Tonin
La stagnazione della produttività è uno dei problemi principali che l’Italia deve risolvere. Fenomeni come la bassa crescita salariale non possono infatti essere risolti in maniera sostenibile senza affrontare di petto la questione. Una delle leve che si possono mettere in campo è rappresentata dalle politiche atte a favorire l’innovazione e l’imprenditorialità. In particolare, ci sono vari strumenti a disposizione, che vanno dalla creazione di parchi tecnologici, ai sussidi per le attività di ricerca e sviluppo o per le start up, al finanziamento di voucher per la formazione e così via.
È ovvio che si dovrebbe cercare di impiegare le risorse a disposizione, per loro natura scarse, nel miglior modo possibile, concentrandosi sulle misure più efficaci nel raggiungere l’obiettivo. Questo è tuttavia un auspicio su cui tutti probabilmente concordano in linea di principio, ma che viene il più delle volte disatteso nella pratica per il semplice motivo che non sappiamo a priori quali sono gli strumenti che effettivamente funzionano e, paradossalmente per politiche che vogliono incentivare l’innovazione, nella maggior parte dei casi non cerchiamo nemmeno di scoprirlo. Uno studio ha preso in considerazione 1700 casi di politiche dell’innovazione a livello dei paesi più sviluppati, trovando che solo nel 3,7% dei casi le politiche erano strutturate in modo tale da poterne valutare in maniera credibile l’effetto. E tra queste, solo una minoranza mostrava un impatto significativo su indicatori quali l’occupazione, la produttività o la performance aziendale.
Un esempio di valutazione rigorosa è lo studio che Massimo Anelli, giovane economista della Bocconi, ha presentato di recente all’università di Bolzano, evidenziando l’effetto dell’emigrazione dei giovani italiani verso l’estero su innovazione e imprenditorialità a livello locale. La cosiddetta «fuga dei cervelli», ma più in generale il fenomeno del crescente numero di giovani che decidono di spostarsi all’estero, sta attraendo giustamente molta attenzione e spesso si sottolinea come alla radice vi sia la mancanza di opportunità e prospettive di crescita offerte dal mercato del lavoro. Lo studio di Anelli mostra come la fuoriuscita dei giovani abbia come conseguenza la nascita di meno aziende, un declino delle competenze richieste dall’economia locale e un declino nel numero di start up innovative. Si rischia quindi di entrare in un circolo vizioso, in cui da un’economia in difficoltà fuoriescono proprio le persone che avrebbero le energie e le idee per introdurre innovazione, rendendo così ancora più difficile un’inversione di tendenza. Bloccare e invertire un simile deflusso dovrebbe essere dunque una delle priorità, sia a livello nazionale sia locale.
Pubblicato sul Corriere dell’Alto Adige e sul Corriere del Trentino dell’11 maggio 2019.