di Roberto Farneti
Quello che si profila è un governo tecnico, un governo per intenderci come il governo Ciampi o il governo Monti, in cui il presidente del Consiglio non è eletto nel parlamento ma è scelto per guidare un esecutivo in tempi di emergenza. L’indicazione di un tecnico senza esperienza parlamentare (Monti, a suo tempo, era senatore, ma per nomina del presidente pochi giorni prima dell’incarico) ha la funzione di compattare una maggioranza altrimenti incapace di convergere su figure politiche, e di compattarsi su un’agenda limitata di temi. Un governo tecnico è tale perché non ha un’agenda propriamente politica, riesce a funzionare finché i temi in discussione in parlamento sono su singole voci e si fonda su una grande anomalia, che ne compromette il funzionamento: il tecnico che lo guida non scrive l’agenda politica, come sarebbe normale in un sistema parlamentare, perché non ha la capacità di guidare maggioranze o verificarne l’esistenza. Conte non ha vinto il congresso del partito con il maggior peso politico all’interno della coalizione, non ha cioè un mandato politico a istruire il parlamento, la sua maggioranza, dando una direzione propria all’esecutivo. Prende un incarico e lo svolge per così dire a progetto, in maniera tecnica. Di Maio avrebbe detto che si tratta di un governo politico, ma si tratta di una excusatio non petita, un modo per mettere le mani avanti e rivendicare una qualità politica per questa coalizione di governo.
Qualora sopravvenga un’emergenza di natura politica, qualcosa che non è scritto nel contratto di governo firmato da Salvini e Di Maio (non da Conte), questo governo dovrebbe lasciarsi istruire dagli autori del mandato. Il primo problema politico del tecnico Ciampi, nel giorno stesso del suo insediamento, furono le autorizzazioni a procedere contro Craxi, che gli fecero perdere la fiducia dell’allora PDS. Da allora, per circa un anno, si mantenne in vita limitando la propria azione fino all’esaurimento politico di quella che sarà ricordata come la legislatura più breve della storia repubblicana.
Il problema dei governi tecnici è il consenso sulla direzione politica da dare all’azione di governo: sono governi, per così dire, a responsabilità limitata. Nel caso dell’attuale coalizione, come si dice, giallo-verde, è curioso come al di là del consenso formale su alcuni punti di programma, vi sia una spaventosa distanza tra i rispettivi elettori. Ciò che li accomuna è che tutti si aspettano una forma quasi catartica di riscatto, da una politica logorroica e inefficiente di cui si crede di avere chiaramente definito i responsabili: banche, Europa, speculatori, poteri forti, ecc. Ma l’elettorato dei 5Stelle si aspetta garanzie e sussidi, mentre quello della Lega, composto in larga parte da un popolo di partite IVA, efficienza, sconti fiscali, sicurezza e poco altro. Comporre interessi così distanti è molto difficile, molto più difficile di quanto non sia stato per i tedeschi il febbraio scorso dare vita a una grande coalizione. Ma esiste un elemento che le due esperienze, quella italiana e quella tedesca, hanno in comune, la scrittura di un contratto tra le parti. In febbraio SPD e CDU/CSU siglarono un Koalitionsvertrag, un contratto di coalizione per dare luogo a un governo politico, un governo a responsabilità certamente limitata ma in cui le linee di responsabilità erano chiaramente tracciate e portavano alla figura della Cancelliera, una figura politica, un politico eletto, organico alla CDU e capace di controllare direttamente gli umori (e i numeri) della sua maggioranza con una semplice consultazione col vice-cancelliere. Lega e 5 Stelle hanno siglato non un contratto di coalizione ma un contratto di governo: che significa che per la prima volta nella storia repubblicana avremo una diarchia, un consolato a due membri i quali hanno, acutamente, scelto un giurista per verificare la correttezza procedurale dell’azione di governo. Si tratta di una formula nuova, che è impossibile da giudicare senza averla vista all’opera. Senza aver capito cioè in che misura Conte sarà disposto a tradurre formalmente in termini coerenti al contratto di governo le decisioni politiche prese dai consoli. Sarà Conte a chiedere la fiducia al parlamento per il suo mandato o la chiederà non per sé ma per il consolato giallo-verde? Sembra una questione banale ma in realtà nasconde un problema di natura politica: ovverosia, il consolato e il presidente del consiglio avranno la stessa idea di quali siano le responsabilità e i poteri di quest’ultimo? Se tutti saranno allineati sul significato del mandato di Conte, l’esperienza di governa potrebbe funzionare. La storia però insegna che i consolati, e penso a quello nato nella fase terminale della rivoluzione francese, non durano e ciò che spaventa è proprio ciò che viene dopo.