di Mirco Tonin
La disinformazione è sempre esistita, ma il tema ha una particolare valenza in questo periodo a causa del ruolo sempre più centrale dei social media nell’influenzare l’opinione pubblica. Eliminando il ruolo di filtro svolto dalle redazioni e dai giornalisti professionisti, questo nuovo modo di comunicare facilita enormemente la diffusione delle cosiddette «fake news». Le conseguenze in ambito politico ed economico cominciano ad essere evidenti e se ne è discusso la settimana scorsa al Festival dell’Economia di Trento, mentre se ne discuterà oggi presso la Libera Università di Bolzano con due ospiti di grande esperienza come Ferruccio de Bortoli e Riccardo Puglisi. Al problema delle notizie false si cerca di rispondere con quello che viene definito «fact checking», vale a dire l’attività di verifica della veridicità delle informazioni messe in circolazione. Un lavoro svolto da parte di soggetti terzi, sperabilmente competenti e indipendenti. Proprio questa attività è stata proposta dal governatore Rossi come tema del prossimo Festival dell’Economia.
Come ogni nuovo «medicinale» ci si deve però chiedere se il fact checking sia veramente efficace nel combattere le fake news. L’evidenza empirica a riguardo non sembra purtroppo molto incoraggiante. In occasione delle elezioni presidenziali francesi del 2017, un gruppo di ricercatori della Paris School of Economics e di Science Po ha effettuato un interessante esperimento.
A un campione rappresentativo di elettori francesi sono state chieste le intenzioni di voto dopo aver visionato messaggi usati da Marie Le Pen nella campagna elettorale, messaggi contenenti informazioni false o quantomeno tendenziose, dove si sostiene, ad esempio, che il 99% dei profughi siano maschi, mentre le cifre dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati indicano una composizione di genere molto più bilanciata. Ad alcuni di questi elettori, oltre al messaggio propagandistico, sono state fornite anche delle informazioni ufficiali riguardo alla reale consistenza dei fenomeni, quindi un fact checking che contraddice la propaganda. Quello che emerge dallo studio è che gli elettori assorbono l’informazione contenuta nel fact checking, rispondendo in maniera più corretta a domande sull’argomento, ma questo non ha alcuna influenza sulle loro intenzioni di voto. Rispetto ad un gruppo di controllo che non ha visionato i messaggi, la propaganda di Marie Le Pen è efficace nello spostare le intenzioni di voto degli elettori, nella stessa misura con o senza il fact checking. Sembra dunque che per trovare l’antidoto per le fake news ci sia ancora molto lavoro da fare.
Pubblicato sul Corriere dell’Alto Adige l’8 giugno 2018